Il pianista – Varsavia 1939-1945: la straordinaria storia di un sopravvissuto di Wladyslaw Szpilman

27 Gennaio, giornata della Memoria. Quest’anno ho deciso di dedicare la lettura in questa settimana ad un libro che speravo di leggere da un po’ di tempo: Il pianista – Varsavia 1939-1945: la straordinaria storia di un sopravvissuto di Wladyslaw Szpilman. Da questo libro è stato tratto l’omonimo film del 2002 per la regia di Roman Polanski, film che ha vinto 3 premi Oscar tra cui miglior attore protagonista ad Adrien Brody, in un’interpretazione straordinaria.
Ero curiosa di saperne di più sulla storia di Wladyslaw Szpilman, pianista polacco sopravvissuto dell’olocausto e, purtroppo, ho potuto constatare che tutto quello che viene raccontato nel film è reale.
Wladyslaw è un pianista, suona per la Radio polacca e nei locali della sua città, Varsavia. Il 23 settembre 1939 un suo concerto si interrompe all’improvviso, Varsavia è bombardata dei tedeschi. L’inizio della fine.
Attraverso le stesse parole del pianista, viviamo tutti i passaggi cruciali e crudeli vissuti dal popolo ebreo, dandoci così testimonianza diretta delle ingiustizie subite. Szpilman è stato un fortunato, anche se in relazione a tutto quello che ha dovuto vivere e subire sulla propria pelle, questa parola risulta assurda. Wladyslaw vive insieme alla sua famiglia, con i suoi genitori ed i fratelli Henryk, Regina ed Halina. Sono benestanti ma, ben presto, dovranno abbandonare tutti i loro averi, pianoforte compreso. Viene descritta la vita quotidiana e le graduali restrizioni che vengono attuate verso il popolo ebreo fino al Novembre del 1940 quando i cancelli del ghetto, creato dai tedeschi per circoscrivere gli ebrei, vengono chiusi. Il dolore, la disperazione, la morte divengono compagni di vita. Quotidianamente si assiste a scene in cui la dignità delle persone viene calpestata, gli ebrei diventano protagonisti dei divertimenti dei tedeschi e delle loro angherie. La fame e la debolezza delle persone, i cui averi sono ridotti all’osso, si fanno sempre più forti.

Io trascorsi due notti e un giorno con dieci persone, in piedi dentro un piccolo gabinetto. Qualche settimana sopo, quando ci chiedemmo come ci fossimo riusciti, e tentammo di pigiarci di nuovo là dentro, scoprimmo che solo otto persone, purché non terrorizzate a morte, vi sarebbero potute entrare.

La realtà del ghetto era tanto peggiore proprio perché aveva la parvenza della libertà. Si poteva uscire in strada serbando l’illusione di trovarsi in una città assolutamente normale. Le fasce che portavamo sul braccio e che ci marchiavano in quanto ebrei non ci turbavano perché le portavamo tutti.

La medesima istintiva paura non abbandonò mai la gente del ghetto per quasi due anni. Anche se in confronto al periodo che sarebbe seguito quelli furono anni di relativa calma, trasformarono però la nostra vita in un incubo senza fine, perché con tutto il nostro essere avvertivamo che in qualsiasi momento sarebbe potuto accadere qualcosa di terribile, pur ignorando quale fosse il pericolo che ci minacciava e da dove sarebbe arrivato.

Se da una parte l’opinione pubblica viene tenuta a bada da comunicati in cui si tranquillizza la popolazione, la realtà è ben diversa. Si inizia a preparare qualcosa di ancora più incisivo. Il 16 agosto 1942 anche la famiglia Szpilman viene portata nella Umschlagplatz, un centro di raccolta vicino ai binari della ferrovia, circondato da cancellate ed edifici in cui i corpi devi vivi si confondevano con quelli dei morti e in cui si aspettava di conoscere il proprio destino.

Mettendo insieme le ultime monetine che ci restavano comperammo un’unica crème caramel. Papà la suddivise in sei parti con il temperino. Quello fu l’ultimo pasto che consumammo insieme.

E anche per gli Szpilman sono costretti a salire sui treni che li porteranno a “lavorare”, lontano da Varsavia. Ma, mentre anche Wladyslaw sta per salire, ecco che viene afferrato da dietro da un poliziotto. Riesce a salvarlo dalla deportazione ma , da questo momento, per il pianista inizia un lungo, doloroso e straziante periodo di sopravvivenza.

«Papà!» gridai! Mi vide e fece per avvicinarmisi, poi esitò e si bloccò. Era pallido, come le labbra che gli tremavano. Si sforzò edi sorridere, con un’espressione di impotenza e di sofferenza sul viso, poi sollevò una mano in un gsti di addio, come se lui dall’oltretomba prendesse congedo da me, che partivo verso la vita. Quindi si voltò e si diresse verso i vagoni.

Ero consapevole di essere stato strappato in modo definitivo da tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito la mia vita. Ignoravo quello che mi aspettava. Avevo solo la certezza che sarebbe stato orribile come nei miei pensieri più foschi. 

 I campi di concentramento sono i luoghi in cui l’orrore della follia nazista raggiunge il culmine, ma la storia di Szpilman mette infatti in luce un aspetto particolare di questo terribile periodo storico. È la storia di chi riesce a salvarsi, a fuggire alla deportazione ma che, allo stesso modo, lotta quotidianamente per la propria sopravvivenza. Ed è per questo che considerare favorito dalla sorte il protagonista, suona veramente contraddittorio. E non sono neanche immaginabili le sensazioni, il grado di paura, il terrore che abbia provato sulla propria pelle. L’autore stesso, il pianista stesso racconta con un certo distacco quello che egli ha vissuto, come se fosse il racconto di un’altra persona che lui ha riportato per iscritto. Perché è impossibile che tutto sia successo veramente, è irragionevole che in una città in cui vivevano tre milioni e mezzo di ebrei solo duecentoquarantamila siano sopravvissuti.
Eppure è tutto vero, è tutto reale, è tutto raccontato.

Il giorno seguente sarebbe cominciata per  me una nuova vita. Come avrei fatto a riaffrontarla, avendo alle spalle soltanto morte? Quale energia vitale potevo trarre dalla morte?

Quello che colpisce una volta realizzato quello che si legge è che nelle parole di Szpilman non c’è mai rabbia, collera o senso di vendetta. C’è malinconia, quella sì, tanta, il pensiero continuo alla famiglia, soprattutto che a mano a mano si viene a conoscenza della realtà che hanno vissuto i deportati.
Ma il libro aggiunge ancora qualcosa in più e va oltre a tutto questo. Szpilman viene infatti salvato da un comandante tedesco. La copertina del libro raccoglie infatti le due facce di questa storia. Accanto alle migliaia e migliaia di bestie naziste, c’è stato qualcuno, tra loro, che è riuscito a fare del bene, a salvare persone innocenti. Wilm Hosenfeld è uno di questi ed il libro raccoglie, alla fine, delle pagine del suo diario personale i cui pensieri sono molto diversi da quello del pianista che egli stesso è riuscito a mettere in salvo. Già, perché se da una parte Szpilman non prova rabbia nei confronti di chi lo ha privato della libertà, della dignità e, in qualche modo, della vita, Hosenfeld esprime tutte le sue amarezze, i dubbi che lo assalgono, l’ira nei confronti dell’assurdità delle regole di un regime che non riesce a comprendere, a comprendere, a condividere.
Hosenfeld viene catturato dai soldati dell’Unione Sovietica e muore “il 13 agosto 1952 intorno alle 10:00 del mattino, per rottura dell’aorta toracica probabilmente mentre era sottoposto a tortura in un campo di lavoro presso Stalingrado.” (Wikipedia)
Ma nel 2008 il suo nome è finalmente tra gli “Giusti tra le nazioni”, coloro che, durante la seconda guerra mondiale, hanno salvato la vita, senza interesse personale, anche di un solo ebreo. Ma Hosenfeld, di ebrei, ne ha salvati molti, secondo le testimonianze riportate nel libro.
Dal diario di Hosenfel:

Dappertutto ci sono paura e terrore, uso della forza, arresti. Ogni giorno la gente viene portata via e uccisa. La vita di un essere umano, per non parlare della sua libertà personale, è priva di valore. ma l’amore per la libertà è innato in ogni essere umano e in ogni nazione e alle lunghe non può essere soppresso. la storia ci insegna che la tirannide ha sempre avuto vita breve. E ora noi abbiamo sulla coscienza sanguinosi crimini causa delle orribili ingiustizioe commesse nell’assassinare i cittadini ebrei. 

…non riesco a convincermi che Hitler voglia una cosa simili e che esistano tedeschi che diano tli ordini. Se è vero, ci può essere una sola spiegazione: sono persone malate, anormali o pazze. 

Vi consiglio caldamente di recuperare il libro o il film, davvero molto fedele. Nonostante la mostruosità che la storia ci insegna, c’è un filo di speranza. Il periodo che stiamo vivendo è molto delicato, l’idea di costruire muri tra i popoli non è poi così lontana, per questo testimonianze dirette come quelle di Szpilman sono fondamentali affinché la storia non si ripeti.
 
«Io suono per i bambini polacchi che ignorano quante sofferenze umane e quale mortale paura un tempo siano passate in quelle loro aule assolate.
Prego perché possano non apprendere mai cosa significhino queste paure e queste sofferenze.»