È questo il fiore del partigiano, morto per la libertà

Oggi, 25 Aprile, ricorre l’anniversario della liberazione d’Italia dal fascismo e dall’occupazione nazista. Questa festa è stata istituita nel 1946, eppure 71 anni dopo, alcune mentalità sono ancora più vive che mai. Dovremmo farlo sempre, ma è in giornate come questa che ci si dovrebbe fermare a riflettere sui gravi errori compiuti nel passato e fare di tutto per cercare di non ripeterli, anche se il futuro, a livello globale, che si prospetta non è per niente dei più rosei.
In uno dei libri letti duranti gli anni del liceo, ce n’era uno che raccoglieva alcuni racconti sul dopoguerra. Uno in particolare, questo che ho scelto di condividere, mi è da sempre rimasto impresso. Guardare le immagini più significative di anni terribili attraverso gli occhi di un bambino , rende il tutto ancora più atroce. Il testo che segue è tratto da La storia di Elsa Morante.
“Ma in quella primavera del ’45, un giorno sua madre, dopo averlo lasciato in attesa per pochi momenti fuori d’una bottega, lo ritrovò che osservava certe riviste illustrate, appese sul fianco di un’edicola, a una certa altezza da lui. Su quella più bassa, spiegata a doppio, il foglio era occupato quasi per intero da due fotografie d’attualità, entrambe di gente impiccata. Sulla prima si vedeva un viale alberato di città, lungo la spalletta di un ponte semidistrutto. Da ogni albero del viale pendeva un corpo, tutti in fila, nella stessa identica posizione, con la testa inchinata su un orecchio, i piedi un poco divaricati e le due mani legate dietro la schiena. Su ognuno di loro stava appeso un cartello con la scritta: PARTIGIANO. E tutti erano maschi, salvo un’unica donna, all’inizio della file, la quale non portava nessuna scritta, e a differenza degli altri non era impiccata con una corda, ma appesa per la gola a un gancio di macelleria.
Presso la spalletta del ponte, si vedeva la figura di un uomo, forse una sentinella, in panatoli da militare chiusi alla caviglia. E sull’altro lato del viale, stava radunato a guardare un gruppetto di persone, dall’aria casuale di passanti, fra le quali due ragazzini più o meno coetanei di Useppe.
Nella seconda fotografia dello stesso foglio, si vedeva un uomo vecchio, dalla testa grassa e calva, appiccato per i piedi con le braccia spalancate, sopra una folla fitta e imprecisa.

La rivista più in alto, in copertina, mostrava un’altra fotografia recente, senza impiccati né morti, però misteriosamente atroce. Una donna giovane, dalla testa rasa a nudo come quella di un pupazzo, con in braccio un bambino avvolto in un panno, procedeva in mezzo a una folla di gente d’ogni età, che sghignazzando la segnavano a dito e ridevano sconciamente su di lei. La donna, dai tratti regolari, pareva spaventata, e affrettava il passo, faticando su certe scarpacce da uomo scalcagnate, preceduta e incalzata dalla folla. Tutti all’intorno erano, come lei, gente malmessa e povera. Il bambino, di pochi mesi, con una testina di ricci chiari, teneva un dito in bocca e dormiva tranquillo.

Useppe, con la testa in su, stava lì a scrutare queste scene, in uno stupore titubante, e ancora confuso. “Useppe!” lo chiamò Ida; e lui, dopo averle porto docilmente la manina, la seguì perplesso, tuttavia senza chiederle nulla.
Seguì, la mattina dopo, un caso, simile a quello antecedente dell’edicola, e che parve, lì per lì, altrettanto insignificante.
Rincasando rapidamente dal mercato fra una commissione e l’altra, Ida aveva lasciato in cucina un cartoccio di frutta mezzo aperto. E di lì a poco Useppe, tentato dalla frutta, si trovò in mano il foglio di carta che la involgeva: già meditava, forse, di farcisi un cappello da carabiniere?
Era una pagina di settimanale illustrato, male stampato in una tinta violacea: di quelli a buon mercato, che per solito sono pieni di novellucce sentimentali e di pettegolezzi sulle attrici e sui regnanti; però attualmente, com’era inevitabile, il massimo posto, anche lì, era occupato dalle testimonianze della guerra. La pagina riproduceva qualche scena dei Lager nazisti, dei quali si avevano solo notizie sommesse e confuse.
A causa del carattere divulgativo e poco scientifico della rivista, le foto stampate in quella pagina non erano nemmeno delle più terribili fra quante se ne vedevano allora.
Esse ritraevano: 1) un cumulo di prigionieri assassinati, nudi e scomposti, e già in parte disfatti – 2) una grossa quantità di scarpe ammonticchiate, appartenute a quelli o altri prigionieri – 3) un gruppo di internati, ancora vivi, ritratti dietro una rete metallica – 4) la “scala della morte” di 186 gradini altissimi e irregolari, che i forzati erano costretti a percorrere sotto carichi enormi fino alla cima, donde poi spesso venivano precipitati giù nella voragine sottostante per dare spettacolo ai capi del lager – 5) un condannato in ginocchio davanti alla fossa che lui stesso ha dovuto scavarsi, guardato da numerosi soldati tedeschi, uno dei quali è sull’atto di sparargli alla nuca – 6) e una piccola serie di fotogrammi (quattro in tutto) che presentano fasi successive di un esperimento in camera si decompressione, eseguito su cavia umana.
Questo genere di prova (una fra le tante diverse attuate dai medici nei lager) consisteva nel sottoporre un prigioniero a variazioni subitanee della pressione atmosferica; e si concludeva comunemente nel deliquio e nella morte per emorragia polmonare.
In queste foto si vede un cumulo caotico di materie biancastre e stecchite, di cui non si discernono le forme, e, altrove, un enorme sfasciume di scarpacce ammonticchiate che, a vista, si lascerebbe scambiare per un cumulo di morti. Un giovane ossuto, dagli occhi grandi, accosciato sull’orlo di una buca, con a lato una specie di mastello e intorno tanti militari che hanno l’aria di divertirsi (uno di loro da un gesto confuso col braccio).
E dall’altra parte della pagina, delle figure di ometti scheletrici, occhieggianti dietro una rete, con addosso certe casacche a strisci, flosce e cascanti, che li fanno assomigliare a burattini. Alcuni di costoro hanno la testa nuda e rapata, altri portano una scopoletta; e e le loro facce si atteggiano a un sorrisetto agonizzante, misero come una depravazione definitiva.
Resterà per sempre impossibile sapere che cosa il povero analfabeta Useppe avrà potuto capire in quelle fotografie senza senso“.
da La Storia, Elsa Morante
… è questo il fiore del partigiano, morto per la libertà…
Non dimentichiamo il sacrificio di donne e uomini che hanno lottato per la nostra libertà.
Continuiamo ad onorare la loro voglia di combattere l’oppressore, di resistere, di dare al nostro Paese una nuova possibilità, anche a costo della loro stessa vita.
Impariamo a ragionare con le nostre teste, non diamo ascolto a chi vorrebbe un ritorno al passato.
Che Paese è un paese in cui manca la libertà?
Difendiamo i nostri diritti, leggiamo, informiamoci, discutiamo, confrontiamoci,
perché non possa mai più ripetersi un abominio del genere.